Ubriaco canta amore

foto di Fernanda Forte /FB
Foto di Fernanda Forte /FB

Qualsiasi cosa accadesse ci rimanevano le notti. Che fossero quelle d’inverno sui gradini di un Duomo con le dita gelate a passarci l’ennesima bottiglia. O quelle d’estate infarcite di stelle con quel cielo che, chissà perché, noti solo a vent’anni. Perché quella è l’età che avevamo mentre ci spostavamo da un luogo all’altro (spesso incantevole e desolato) della nostra regione per vedere i concerti della Banda. Scherzavamo su come Erriquez e soci fossero un po’ come il prezzemolo: sempre presenti in festival nel mezzo del nulla, in ogni festa dell’Unità. Ma anche  questo era un segno incontrovertibile dell’estate, di quell'”estate paziente che tornava lo stesso”.  E la nostra era davvero infinita.  La inseguivi fino all’alba con voracità, guidato da quell’insoddisfazione esistenziale e quell’inquietudine ormonale che tanti anni dopo avresti riconosciuto come tra i pochi segni tangibili della felicità terrena. E i loro concerti, anche quando ci andavi controvoglia, anche quando “basta con sta musica dai”, erano un tripudio di tutto questo. La colonna sonora per abbandonarsi al vino, alla ricerca della ragazza con il vestito a fiori con cui non avevi parlato e forse non avresti parlato mai.

Ma erano anche una parola che appartiene ormai al secolo scorso: militanza.  I muri erano crollati pochi anni prima così come le ideologie e molte cose non ci tornavano più nemmeno “dalla nostra parte”. Ma nei loro concerti ci si annusava e si apparteneva a una comunità. Era ancora facile riconoscere un “noi” e un “loro”, ed era bello. Era chiudere gli occhi insieme nella festa, nell’abbandonarsi, nel tirare a tardi in attesa dell’ultimo grappino o dell’ultima canna insieme. La certezza che la vita avesse senso solo nella condivisione. Nella gioia di una pisciata ubriaca in piena campagna, nel bacio che non ti faceva dormire, nella canzone nelle cuffie che ti proteggeva dall’inverno, nelle albe in riva al mare e nelle chitarre scordate. In quella voglia di abbracciare gli altri e il mondo senza cinismo o difese che si sperimenta una volta nella vita e che (come tutte le cose belle) avremmo capito,a nostre spese, non è gratis. Non chiedetemi quando sia finita questa stagione perché davvero non ricordo. So che la morte di Erriquez mi ha ricordato che è ormai successo da un pezzo e che la mia carta d’identità non mente.

Nessun rimpianto, al massimo un bel po’ di nostalgia anche se, tra le pochissime cose che ho imparato credo ci sia l’evidenza che non esiste bellezza senza passaggio. C’è un tempo per tutto. E so che è inutile “portare via un poco d’estate in qualcosa di fragile come le storie passate”, ma con la morte di Erriquez scompare davvero un mondo e credo che tanti della mia età sentono la stessa cosa. Che non scorderemo più quell’ubriaco che “canta amore” evocato da Dino Campana e cantato dalla Banda. Perché c’è stata una stagione in cui anche la grande poesia è diventata un canto popolare accessibile a tutti. La colonna sonora di notti che non scorderò. Niente di eccezionale forse, solo i nostri vent’anni e qualche canzonetta che ci ha reso migliori. Come diceva quel tale, del resto: “È tutta musica leggera, ma la dobbiamo imparare”. Buon viaggio.

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