Tratteggio

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C’è una novità nella mia vita su cui sto riflettendo da giorni. Quasi venti giorni fa si è interrotto il rapporto lavorativo con l’azienda editoriale per la quale lavoravo da 13 anni, un bel pezzo di esistenza. Si è interrotto bruscamente, con pochissimi giorni di preavviso e senza troppe spiegazioni. Sono entrato quando Berlusconi era ancora presidente del Consiglio, i social erano ancora strumenti ludici e in redazione si facevano iniziative contro le “leggi bavaglio”, me ne vado dopo una pandemia e nel mezzo di una crisi climatica epocale, di una guerra quasi mondiale e di un panorama informativo stravolto da quelle che un tempo (ovvero 10 anni fa) chiamavamo ancora “nuove tecnologie”.

Scendendo per l’ultima volta le scale dal nono piano di Via Cristoforo Colombo 90, ho in breve realizzato di aver abitato ogni piano di quello stabile, una sorta di viaggio nel tempo. Ogni spostamento è corrisposto a una nuova fase della mia vita professionale e talvolta anche personale. Ricordo la prima volta che sono entrato in quella che allora si chiamava ancora Kataweb, le battute di una redazione scanzonata, ma composta da professionisti che mi hanno aiutato molto, quasi sempre sorridendo, a capire cosa vuol dire confezionare una notizia su un giornale nazionale e verificare sempre quello che dici, cosa è essenziale e cosa non lo è. Le mattinate in quel tempio del giornalismo mondiale che è National Geographic,  il timore nel tradurre ed editare articoli scientifici e la scoperta di un metodo: l’evidenza che nel giornalismo può esistere un rigore e una forma impeccabile anche se parliamo di biglie o di influencer.

Le nottate e le giornate passate ai social di Repubblica.it, a inseguire la cronaca che diventa storia in giornate spesso estenuanti, ma anche divertenti grazie all’ironia e alle battute di colleghi che spesso sono diventati veri e propri amici . Le riunioni redazionali, gli articoli e le trasferte per la sezione di Tecnologia, l’emozione di partecipare a convegni e fiere con il badge del giornale che leggevo da ragazzino con su scritto il mio nome. Le giornate passate a sperimentare nuovi formati editoriali e lavorare su contenuti e temi che mi stanno a cuore da sempre, in quella fucina di creatività che era (ed è ancora) il Visual Lab di Repubblica accanto a colleghi dalle formazioni e dai background più svariati, con la libertà di sperimentare e vedere i miei interessi diventare prodotti editoriali, un piccolo miracolo reso possibile grazie sensibilità e intelligenze sempre più rare.

E ancora l’esperienza sui quotidiani locali del gruppo, la libertà di sviluppare approfondimenti e longform, l’interazione con redazioni distanti fisicamente e colleghi che vivono realtà diverse da quella romana, ma dalla grande professionalità, simpatia e disponibilità: un bagaglio che porto e porterò nel cuore. Il privilegio di aver potuto scrivere per un quotidiano come La Stampa e aver vissuto una piccola esperienza all’interno della redazione. E infine l’esperienza nel Visual Desk di Repubblica, la sezione video di Repubblica e Stampa, la frenesia delle lavorazioni e la professionalità, l’esperienza e la simpatia dei colleghi, le riunioni fiume che diventano dibattiti e anche momenti per ridere insieme dello stress o delle tante notizie assurde o grottesche che capitano a chi fa il nostro lavoro.

Eh no, trovarsi fuori alla mia età, non è uno scherzo. Mi piacerebbe molto concludere come ne “L’avvelenata” di Guccini (“Di storie ne ho ancora da raccontare per chi vuole ascoltare ecc.ecc.), ma non sono Guccini e questi non sono gli anni ’70. E allora mi sono tornati in mente tutte le vite che ho accantonato per fare questo mestiere sconsigliato da tutti (“il giornalista non lo fai o non ci campi in Italia” è stata la frase più gentile ed edulcorata ripetuta da chi mi voleva bene). Mi sono chiesto perché per fare questa carriera ho caricato tutte le mie cose su un aereo e sono tornato da Dublino o perché ho continuato a sognare di farla anche in un ufficio di una grande agenzia di comunicazione dove lavoravo come copywriter.

Credo che la risposta sia in una vecchia televisione con dei colori sbiaditi, alla fine degli anni ’80. Sono nipote di contadini, figlio di quel “paese di primule e temporali” per citare un bel libro di Pasolini, che oggi non esiste più. Un mondo meraviglioso e terribile che ho visto sbiadire e dissolversi durante la mia infanzia, un universo dove potevi giocare con i pulcini o i coniglietti e poi vederli uccidere da grandi sotto i tuoi occhi. Gesti dettati da necessità secolari, ma in cui potevi accorgerti nitidamente della dose di violenza che regge anche la società industriale, osservare l’alternanza di vita e morte senza sconti.

Mio nonno aveva un rito: durante l’ora del telegiornale si metteva davanti alla TV e ascoltava avidamente le notizie. Era un momento quasi solenne, il momento in cui il mondo entrava anche in quella casa di un paese dell’appennino abruzzese. E il giornalista era un mediatore tra la complessità del mondo e l’universo di quei contadini. Da quella tv, quando andavo a trovarlo, ho visto chiudersi il ‘900: dalla caduta di Causescu al crollo del muro di Berlino, dalla guerra nell’ex Jugoslavia al crollo dell’Urss. Ricordo ancora la curiosità e il senso di mistero che avevano per me questi avvenimenti, la voglia di comprenderli, di essere lì come testimone, di raccontarli.

Le cose poi vanno spesso diversamente, pochissimi di quelli che sognano questo mestiere diventeranno mai reporter di guerra o corrispondenti, ma non credo che sia questo il punto. Il punto è forse considerarlo come un esercizio alla verità e chiunque abbia mai lavorato a un giornale, sa quanto è difficile a volte. “Mi ci vogliono dieci paradossi per ricomporre in me una verità” canta Dylan Thomas in una delle sue più belle poesie. Questo mestiere mi ha insegnato a dubitare delle verità precostituite e che spesso quello che chiamiamo “vero” è un equilibrio tra le fonti. Mi ha insegnato a verificare costantemente, a considerare chi dice cosa e per quale motivo, ad accertarmi e studiare sempre e non accontentarmi mai dell’evidenza. Un insegnamento prezioso, oggi che la verità diventa sempre più un fatto “tribale” sui social network. Un accorgimento che è diventato uno stile di vita, essenziale anche nella mia quotidianità.

L’altro punto è che questo mestiere mi ha dato, a volte, la possibilità di parlare e raccontare storie di chi non è mai sotto i riflettori. “La nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo” diceva Albert Camus, un’affermazione sempre più attuale in questa era di ego ipertrofici. Ho avuto il privilegio e l’onore di raccontare, anche senza vivere nessuna guerra in prima persona o fare l’inviato a Pechino, le storie dei migranti, di chi paga il prezzo del cambiamento climatico, dei disabili, approfondire tematiche come lo smaltimento di rifiuti illegali, gli effetti devastanti dei tagli alla sanità e al welfare che questi anni disgraziati ci hanno consegnato, la fuga dei giovani e dei precari da questo Paese e molto altro. A riprova che ci sono molti modi di fare questo mestiere ho imparato a farlo spesso mettendo in fila dati , elaborandoli e studiandoli, cosa che farebbe sorridere i miei professori di matematica al liceo, credo.

Infine credo che questo lavoro mi abbia insegnato molto meglio cosa vuol dire raccontare storie. Le storie sono gli unici strumenti che ci danno conto del passare del tempo, uno dei pochi che abbiamo a disposizione per donare senso alle nostre vite. Non è un caso che, nella terapia psicanalitica, quando ci si trova di fronte ad una nevrosi si cerca sempre di donarle una prospettiva che comprenda una narrazione. Il nostro mestiere non è però arte, non facciamo letteratura, ma artigianato. Le nostre storie non pretendono di divenire universali, né di rivelare archetipi e nemmeno di smuovere le masse. Sono solamente un’istantanea di quello che succede in un determinato momento, raccontato con tutti i limiti di chi osserva. Questa esperienza mi ha insegnato che non esistono storie di serie A o di serie B, che tutto, dalla caduta del Pil alla vita di un influencer può essere raccontato bene e tutto è degno di essere raccontato. E soprattutto che non esiste un solo mezzo per farlo: dal video alla grafica, dai dati alle animazioni, dagli articoli alle storie instagram, la sfida è solo quella di provare a guadagnare un po’ di quello che, nell’era della sovrainformazione, è ormai il bene più prezioso che tutti si contendono: l’attenzione di chi legge.

Dico queste cose per ricordarmi che la mia qualifica non è solamente un nome su un tesserino. Poi posso fare altro, come è già successo tante volte nella mia vita. Poi non si vive di soli principi, certo, i giornali sono anche aziende. Credo però che siano queste le due cose che mi rendono orgoglioso del mio percorso, nonostante il prezzo. La sola linea tratteggiata che tiene insieme quel bambino davanti alla Tv del nonno e quest’adulto che scrive queste righe davanti a questo PC . E credo anche che, al di là dell’amarezza, la mia vicenda non sia eccezionale. Si sovrappone alle tante, di tanti amici e colleghi, non solo giornalisti, ascoltate in questi anni. Forse un giorno, con più lucidità, proverò a raccontarne i risvolti collettivi. Ma non ora e non qui.

Qui è il momento di ringraziare tutti quelli che mi hanno dato la possibilità di esprimermi su alcuni dei giornali su cui sognavo di scrivere da ragazzino, tutti quelli che, direttamente o indirettamente, con consigli, cazziate o semplicemente con l’esempio, mi hanno aiutato a migliorare. Ai tanti che hanno allietato con parole, nicotina o gesti le lunghe giornate in redazione, anche quelle decisamente no. E a tutti quelli che sono riusciti a strappare un sorriso anche a un orso abruzzese come me. A presto.

 

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