Salpare

Scattare un’istantanea di un uomo in fuga per mezza Europa non è un’impresa facile. Lo è ancora di più se l’uomo in questione è un profugo che proviene dalla Siria. La sua immagine tenderà a confondersi con quello delle migliaia di fotogrammi che abbiamo assorbito e metabolizzato in questi anni maledetti. La sua storia finirà nelle tante storie che compongono quella nebulosa che, chi con pietà, chi con aperta diffidenza o paura, considera “altro da sé”.

SPERANZA

“L’altro volto della speranza”, l’ultimo film di Kaurismaki prova a smontare questo meccanismo. Lo fa usando un registro poetico prima che politico. Riconducendo un dramma epocale alla dimensione del quotidiano. Riconoscendo nella fragilità altrui qualcosa di noi stessi.

C’è Khaled, un profugo siriano che diventerà presto un clandestino. Un novello Ulisse che si aggira nell’estremo nord di questo continente alla ricerca di una sorella perduta e di dignità. C’è uno strambo signore, improvvisatosi padrone di un ristorante. Ci sono una serie di camerieri bislacchi e curiosi cantanti rock scandinavi. C’è un mondo senza tempo, una Finlandia volutamente retrò, esistita negli anni ’70 o forse mai.

Un universo ricostruito con un notevole sforzo di sottrazione che ci proietta in un mondo lontano anni luce dall’iperconnessione odierna. Qui ogni oggetto, ogni personaggio, tradisce la sua intima solitudine. Solo in questo vuoto, sembra suggerirci il regista finlandese, ci può essere connessione  reale. Solo riconoscendo una parte della propria solitudine nell’altro può esistere davvero umanità.

E, come in ogni film di questo eccletico maestro, c’è molto grottesco. Battute surreali, stramberie e comicità che contribuiscono a tessere la contro-fiaba di Kaurismaki. In questo strano mondo di camerieri pasticcioni e impacciati, di ristoratori creativi (si arriva a improvissare addirittura un sushi bar) e combattivi barboni, Khaled, il “nessuno”, può finalmente essere accolto, riconquistare un nome, una dignità, un volto.

La sua fuga diventa la metafora di vite che per proiettarsi un avanti devono spostarsi continuamente. Siamo tutti in fuga da qualcosa, sembra suggerire il regista finlandese: lo è il neo-ristoratore, che lascia la moglie e gioca tutto a poker per finire a gestire un ristorante, lo è una signora attempata che vuole trasferirsi a ballare in Messico, lo è Kahled, esiliato dalla guerra e costretto a vagare in questa Europa blindata fino a ritrovarsi nell’estremo Nord come clandestino.

E’ nel riconoscere nella fuga dell’altro una parte dei nostri passi che si può esercitare la banalità del bene. Un miracolo che avviene tra singole individualità, una redenzione che difficilmente può essere collettiva.

Ci aveva già provato nello splendido “Miracolo a Le Havre”: ora Kaurismaki torna a parlare di immigrazione e lo fa in maniera ancora più intima.  Con un registro che ricorda l’ultimo Joseph Roth e il cinema di Chaplin. Solo chi ha il coraggio di sopportare il peso della sua insopprimibile solitudine può sperare in un frammento di luce. Solo chi ha il coraggio di lasciarsi tutto alle spalle, o sperimentare il coraggio, può ritrovarsi e incontrare realmente gli altri. Perchè finché si è pronti a salpare ci può essere ancora salvezza.

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